La questione della “sussidiarietà circolare”
Nel
corso del recente convegno su “Giovani e lavoro” il prof.
Stefano Zamagni ha affrontato, tra le varie interessanti questioni, anche
quella della “sussidiarietà circolare”, una tematica, relativamente nuova, di
particolare attualità in vista di un nuovo Welfare che, imposto anche dalla
crisi economico-finanziaria che stiamo attraversando, appare necessario
costruire nel nostro Paese. Una tematica su cui
mi sembra opportuno richiamare la nostra attenzione, anche per le sue
applicazioni concrete che alcuni enti pubblici stanno sperimentando. Il prof. Zamagni ne ha parlato dopo una
sua analisi della struttura del mercato
del lavoro che configura
un’assenza di prospettive per una larga fascia di popolazione (collocata in un
ambito “intermedio”del mercato),
specialmente giovanile, priva di adeguata specializzazione o non in grado di
assicurare lavori di routine e puramente manuali. Il prof. Zamagni ha spiegato infatti, in particolare, che la
struttura del mercato del lavoro può essere rappresentato da una clessidra
alla cui base inferiore si trovano lavori di routine, di pura
esecuzione. Se si sale nel livello intermedio, per livelli di formazione
intermedi fino ai diplomi di scuola media e di laurea non specializzanti,
specialmente in corrispondenza della strettoia, non ci sono posti di lavoro. Se
si supera il livello intermedio, oltre la laurea, facendo master, dottorati di
ricerca e specializzazioni di vario tipo, si arriva alla base superiore, verso
cui si orientano le aziende per assumere i più preparati, avendo bisogno di più
persone che pensano. Il problema da risolvere è quello del lavoro per coloro
che appartengono alla fascia intermedia. Proprio per fronteggiare questa
assenza di prospettive lavorative, il prof. Zamagni ha espresso l’esigenza di aumentare
il “tasso di imprenditorialità
sociale” per la fornitura di beni “comuni” (cioè né pubblici e né privati)
che riguardano i servizi alla persona, la fruizione di beni culturali,
ambientali, ecc.. Tutti beni, in gran parte riconducibili all’area del welfare,
che possono essere prodotti con l’apporto di imprese no-profit, del Terzo settore
(associazioni, cooperative sociali, fondazioni, Ong, ecc.) con possibilità
d’impiego da parte di quella fascia di giovane popolazione genericamente
formata . Ecco, allora, perché si arriva
all’idea della “sussidiarietà circolare”, un concetto diverso dalla
sussidiarietà verticale e da quella orizzontale. Si tratta cioè di pensare la società come una sorta di
triangolo ai cui vertici vengono messi: enti pubblici, imprese, terzo
settore. Questi tre vertici devono interagire tra loro in maniera organica e
sistematica, su una base di parità, per
arrivare a definire le cose da fare e la loro realizzazione. E non è facile.
Perché attualmente, in assenza di tale
modello, i tre “vertici” così si comportano: l’ente pubblico, eletto
democraticamente, intende decidere da solo e semmai chiama gli altri a
concorrere alla realizzazione, cercando d’impegnare l’impresa a dare soldi e il
terzo settore a dare un po’ di volontariato. Nel sistema circolare, invece, tra i tre vertici si deve instaurare una
condivisione a partire dalla progettazione. Gli imprenditori sono disponibili a
concorrere alle spese a condizione che possano dire la loro sul modo di
progettare , sul modo di gestire e così via. I soggetti del terzo settore sono
fondamentali perché, vivendo nel territorio, conoscono meglio i bisogni e dove
stanno ed applicano un modello di gestione più appropriato. L’Ente pubblico ha
la responsabilità di garantire l’universalismo (impiegando proprie risorse). Si
tratta, cioè, dell’applicazione di un’autentica democrazia che è nata proprio
per la realizzazione del bene comune. Il modello della “sussidiarietà
circolare” non è una teorizzazione perché può concretamente funzionare, come in
effetti già funziona in alcune parti d’Italia, dalla Lombardia, che ha fatto da
apripista, all’Emilia-Romagna. Per
diffondere questo modello occorre un’apposita legislazione a partire dal
livello regionale. Occorre, quindi, una volontà politica orientata verso nuovi
modelli gestionali di beni comuni e servizi sociali. Di ciò è fermamente
convinto il prof. Zamagni. Che, proprio per fronteggiare l’attuale situazione
di grave carenza occupazionale, ha riaffermato anche a Foligno, la necessità di
“creare una pluralità di forme d’impresa ed una pluralità di aree d’intervento
che consistano non soltanto nel produrre merci o servizi alle imprese. Ma
dobbiamo metterci a produrre servizi alle persone”.
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